La conferenza tenutasi  nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli il 10 maggio 2003, alle ore 16, ha offerto al pubblico, dopo quasi venti secoli di mistero, la storica soluzione dell' "enigma di SATOR": il superfamoso "Quadrato Magico", assurto alla duplice gloria del dibattito accademico più sottile e della ciarlataneria più sfrenata. Del primo è esempio emblematico l'interpretazione che leggiamo essere dell'Enciclopedia Britannica: Il seminatore dell'Areopago detiene le ruote dell'Opera; della seconda,  la possibilità di usare il Quadrato in svariate fattucchierie. Su invito del Dott. Claudio Salerno, presidente dell'Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali, e nell'ambito delle manifestazioni napoletane per la "V Settimana della Cultura", Renato Palmieri ha risolto il millenario rebus, semplicemente separando l'esclamazione latina A dal comunissimo verbo latino REPO ("io striscio") nella tormentatissima quarta riga dell'iscrizione pompeiana e facendo di questa un documento di straordinario significato sociale e religioso. Al termine della conversazione, è stato distribuito al pubblico un opuscolo come "memoria" ufficiale della scoperta, il cui contenuto viene oggi qui presentato ai lettori del WEB.

 

Istituto per la Diffusione delle Scienze Naturali

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 Incontri di Archeologia

Museo Archeologico Nazionale

Napoli

 

 

 Renato Palmieri

 

La risposta di SATOR

 

Sabato 10 Maggio 2003, ore 16

 

Occorre dare per conosciuta, almeno nei suoi lineamenti generali, la copiosa letteratura fiorita sin oggi intorno all’enigma del “Quadrato Magico” di SATOR, la cui prima apparizione  risale agli anni precedenti la catastrofica eruzione vesuviana del 79 dopo Cristo. Passo quindi senz’altro a tracciarne sinteticamente la soluzione, che si trova scolpita – all’insaputa di tutti – su una colonna del portale nord della cattedrale di Chartres.

Si intreccia nel problema una pluralità di piani, che impegna chi legge a non fermarsi a considerazioni parziali relative ai momenti distinti del discorso che si va a fare, ma a valutare la congruenza degli argomenti nella loro conclusione.

Nell’anno 70 dopo Cristo Tito, figlio dell’imperatore Flavio Vespasiano e suo futuro successore, represse la rivolta giudaica, conquistando Gerusalemme e distruggendo il tempio di Salomone.

L’evento ebbe grandissima ripercussione nella comunità ebraica diffusa a Roma e in Italia. Già un secolo prima Orazio, nella famosa satira del seccatore (la IX del primo libro), aveva sottolineato l’influenza di quell’ambiente, con l’ironico timore che si potessero offendere i Giudei (“Vorresti tu scorreggiare in faccia ai circoncisi Giudei?”). Fu in quel contesto rovinoso che un ignoto ebreo di Pompei, mosso da un sentimento di partecipazione al disastro del suo popolo, ebbe a incidere nella scanalatura di una colonna della Grande Palestra di Pompei la scritta che vediamo qui:

Nessuno dei tentativi di traduzione, che per secoli sono stati fatti della struttura palindroma di quelle parole, ha un senso comprensibile, soprattutto per lo scoglio rappresentato dalla quarta di esse (AREPO). Si era infatti fuorviati dall’idea che fosse una parola unica, come le altre, mentre si trattava in realtà, come qui oggi si dimostra, di due distinte parole  A, REPO –, che, così separate, suonano in perfetto latino “Ahimè, io striscio”, dove A è esclamazione, come nei versi 14-15 della prima Bucolica di Virgilio:

gemellos / spem gregis, a, silice in nuda conixa reliquit  (“ [la capretta] partorì sforzandosi, ahimè, sulla nuda roccia due gemelli, speranza del gregge!”).

SATOR diventa allora vocativo: “O Seminatore” e il quadrato magico si potrà definire il lamento del serpente, ovviamente – per l’anonimo ebreo – di quello biblico (Genesi 3), il quale teme di essere tranciato dalle “ruote” che “l’Opera tiene con sé”:

ROTAS / OPERA / TENET / A REPO / SATOR                                                                            

ruote / l’Opera / tiene con sé / ahimè io striscio / o Seminatore

 

L’interpretazione letterale è premessa di quella simbolica. L’Opera è già un termine metaforico, alludendo biblicamente a uno strumento fabbricato dal Seminatore, nemico del serpente, cioè da Dio. Tale oggetto, nel clima determinato dalla distruzione del Tempio, non può essere che l’Arca dell’Alleanza, contenente le leggi del Signore e anticamente custodita nel Tempio fino a un’epoca e a vicende imprecisate.

In Esodo 25, nella descrizione dell’Arca voluta da Dio, non si parla di ruote ma di stanghe e di anelli per il trasporto a spalle. Le ruote, quindi, sono un’interpolazione concettuale dell’anonimo, fatta per un duplice motivo. Quello simbolico di carattere religioso è di dare effetto mortale per il serpente, avversario di Dio, al movimento dell’Arca (come carro o aratro) guidata dal Seminatore. L’altro, simbolico di carattere matematico, allude alla costruzione geometrica di un fondamentale rapporto, presente nelle leggi di natura: ne parleremo tra poco.

La prova del significato letterale ora dato – così come venne esattamente colto in un momento della storia interpretativa del “quadrato” e poi smarritosi – è fornita dal documento medievale che presentiamo qui:

 

 

L’immagine è tratta da I MISTERI DELLA CATTEDRALE DI CHARTRES di Louis Charpentier (Arcana Editrice, Torino 1972) e presenta due colonnette del portale nord della cattedrale. Vi si  vede scolpita a rilievo in entrambe le colonne l’Arca fornita di ruote, con un già chiaro riferimento alle ruote del “quadrato” di SATOR. Essa è trasportata da buoi su qualcosa di accidentato, nella prima colonna, e inserita in una scena di massacro, nella seconda, con un uomo che cerca di velarla. Sulla fascia sottostante si leggono due iscrizioni, che Charpentier riporta traducendole – con l’aiuto di un “acuto latinista”! – in maniera arbitraria. Quella della prima colonna (tralasciamo l’altra) dice, nel testo riportato dall’autore del libro: ARCHA CEDERIS e  viene tradotta, non si capisce da quale latino, “Tu lavorerai per l’Arca”. In realtà, nella grafia del latino medievale, quella scritta è precisamente la risposta di SATOR, il Seminatore-Dio, al  lamento del serpente: “Tu sarai ucciso dall’Arca”. La mancanza del dittongo ae nel verbo caedèris, sostituito da una semplice e, è usuale nel latino scritto di quei secoli. Si può per sovrappiù ipotizzare, con un filologismo forse eccessivo, che la H superflua nella parola ARCA ne faccia la traslitterazione del greco ARCHE’, Potere (sommo), con un doppio senso voluto.

 

Ma torniamo al “quadrato” graffito a Pompei. Nessuno, se non messo sull’avviso, si accorgerebbe che il serpente è letteralmente presente nell’incisione, il che rende ancora più certa la lettura ora data dell’enigma. La parola centrale TENET ne contiene in modo ben visibile una duplice rappresentazione, che è come miniata nelle due T estreme, con una testina e un corpo filiforme a mo’ di minuscolo serpente. La figurazione fattane dall’anonimo è la traduzione grafica di una popolare antica allegoria legata all’episodio biblico della mela, come simbolo di un atto sessuale. Infatti la T di destra ha il serpentello esterno al corpo della lettera; quella di sinistra è disegnata come a gambe divaricate, tra le quali penetra il serpente.

Tuttavia, l’aspetto più clamoroso e paradossale della visibilità invisibile del serpente è il fatto che, parecchio al di sopra della iscrizione vera e propria, il serpente è stato manifestamente disegnato con una inequivocabile linea, per l’appunto, serpentina, che rappresenta il sigillo conclusivo di garanzia della traduzione ora data.

 

 

Passo all’aspetto simbolico di carattere matematico e naturalistico, che è il vero fondamento dell’enigma di SATOR e si collega alle “ruote” che hanno i loro assi sull’Opera, che perciò le “tiene con sé”, a sé unite (è questo, in tale contesto, il vero senso del tenet latino, sottolineato dalla precisa struttura palindroma della parola).

Apro una parentesi sulla radicale differenza tra la scienza matematica dell’antichità e quella moderna. La prima si indirizza generalmente, spesso in forma non palese alle masse, verso la ricerca di una chiave geometrica dell’universo, considerata espressione di una suprema Mente che governa le leggi di natura. Platone fece scrivere all’ingresso della sua scuola: “Qui non entri chi non conosce la geometria”. La seconda è subordinata solo alla tecnica e alle sue realizzazioni pratiche. A quest’ultima dobbiamo gli enormi vantaggi dell’attuale progresso nelle condizioni empiriche di vita, ma anche la rinuncia alla possibilità di dare un chiaro senso filosofico-morale all’esistenza. Al che si aggiunge anche il fatto che il ritrovamento di quella chiave può essere produttivo di una svolta nella soluzione di problemi ancora oscuri dell’altro campo: quello di carattere pratico-tecnologico.

 

Se tagliamo trasversalmente una pera o una mela, vediamo al centro i semi disposti in forma di pentagono stellato: la forma, cioè, di una stella marina, ma – al sommo della scala evolutiva e delle sue infinite complicazioni – anche la struttura generale della figura umana, come nell’ “Uomo” leonardesco: 

 

 

 Dall’antichità ai nostri giorni corre nelle misure delle varie arti il filone tradizionale – più o meno segreto – della cosiddetta “sezione aurea” (geometricamente, la parte media proporzionale di un segmento tra l’intero segmento e la parte residua), che costituisce uno speciale rapporto matematico ricorrente nella natura in modi innumerevoli (così in tutte le forme penta-decagonali, ma non solo) e che gli antichi matematici avevano identificato come la radice universale delle cose. Nella tradizione giudaico-cristiana proprio la ricerca dell’Arca, andata perduta nelle varie distruzioni subite da Gerusalemme, ha assunto il simbolo di una trasmissione del segreto della “sezione aurea” attraverso la storia. Ne sono esempio in questo senso le opere, non solo bellicose, dei Cavalieri Templari. Indipendente da questo percorso è l’altro, che si può definire greco-pitagorico, sempre attinente alla “sezione aurea”, che si manifesta nella scultura e nell’architettura greca, a partire da Fidia (con la cui iniziale phi si designa matematicamente quel rapporto). Il punto di partenza di entrambi i percorsi è però molto più antico, risalendo alla sapienza egizia e alla costruzione delle grandi piramidi di al-Gizah. Il percorso ebraico (la Qabbalah) comincia con l’Esodo e col relativo libro della Bibbia, perviene a Gerusalemme col Tempio di Salomone e i suoi arredi – principale tra essi, appunto, l’Arca dell’Alleanza –,  prosegue con i Templari verso la Francia e il sorgere delle cattedrali gotiche. Il percorso pitagorico passa per la Grecia con la sua arte, giunge in Magna Grecia con le scuole di Crotone e di Elea e la fondazione di Neapolis (la cui planimetria urbanistica ne è una prova e richiede un discorso a parte), si dirama nei secoli fino a Costantinopoli (Santa Sofia) e all’età bizantina.

 

C’è un altro valore matematico, che fa coppia con la “sezione aurea” come altra essenziale radice della natura, ed è quello che si lega al cerchio e alle sue forme naturali: il rapporto tra circonferenza e diametro, ovvero il pi greco. Anch’esso segue due percorsi di ricerca, entrambi – come la “sezione aurea”  – muoventi dalla fonte egizia delle Piramidi. Quello della speculazione greca ha un caposaldo nell’opera di Archimede. L’altro affiora nella tradizione cristiana come ricordo e ricerca del Santo Graal: un vaso-scodella, che servì da piatto e calice nell’Ultima Cena e da contenitore del sangue di Cristo raccolto da Giuseppe di Arimatea. Di questa seconda radice matematica dell’universo possiamo solo accennare la presenza tradizionale nell’epopea dei Cavalieri della “Tavola Rotonda” e la valenza segreta, rispetto al problema, dell’ottagono: la forma dello stesso Graal in qualche rappresentazione analogica, come quella della sua supposta custodia nella struttura ottagonale di Castel del Monte ad opera di Federico II. Che non si tratti di una relazione di pura fantasia tra cerchio e ottagono in natura, chiunque può verificarlo, tagliando trasversalmente – come si è fatto per la pera e la mela – il frutto rotondo del cachi. Vi si troverà il disegno raggiato di un perfetto ottagono regolare.

 

Ma vediamo ora come le “ruote”, da cui il serpente teme di essere ucciso, servono a costruire la “sezione aurea” e a dimensionare con essa l’Opera.

L’anonimo non si limita a un’operazione asetticamente geometrica, quella che noi moderni faremmo seguendo la regola dettata dai nostri libri di geometria, ma estrae il valore dalla fonte originaria della sua ispirazione e della stessa tradizione giudaica: la sapienza scritta nelle Piramidi.

A questo punto occorre sottolineare la superficialità con cui la scienza moderna tratta l’argomento delle conoscenze di antiche caste iniziatiche, come quella dei sacerdoti e costruttori egizi. Su LE SCIENZE n.78 Martin Gardner ironizza sulla possibilità che la Grande Piramide di Cheope rappresenti con la pendenza dei suoi lati, in rapporto alle sue dimensioni, i due valori matematici  fondamentali di cui abbiamo ora discusso. Egli argomenta che lo stato attuale del monumento, degradato dal tempo e dalle rapine, ci rende del tutto impossibile una qualsiasi verifica dell’ipotesi, che resta quindi priva di fondamento scientifico. In ciò è corroborato da chi, come Kurt Mendelssohn, sostiene che gli Egizi avessero men che rudimentali nozioni di matematica.

 

Ma il Gardner, nel manifestare la propria ironia sulla questione, non si preoccupa di prendere in considerazione l’altra piramide, quella di Chefren, figlio di Cheope, per la semplicità elementare delle sue proporzioni, che non soggiacciono in quanto tali al dubbio della possibilità di verifica e non sembrano dare adito al sospetto di particolari segreti esoterici. Esaminiamo allora questo secondo problema. Il triangolo rettangolo della semisezione mediana della piramide di Chefren presenta base, altezza e ipotenusa nel rapporto evidente e incontrovertibile dei numeri interi 3, 4, 5 (si consulti per conferma la voce relativa nell’Enciclopedia Italiana): così proporzionato, il triangolo prende nome di “triangolo isiaco”. Abbiamo motivo di credere d’essere i primi a rivelare, come dalla elementarità di queste proporzioni, con una procedura rigorosa tutta interna alla struttura, si giunga a determinare la “sezione aurea” del cateto di base della semisezione di Chefren. Si direbbe che il figlio di Cheope abbia voluto beffare con millenni di anticipo lo scetticismo dei posteri sulle intenzioni segrete del padre, confermandole con un procedimento assolutamente preciso. Di questo diamo qui la figurazione finale, analizzandone tuttavia uno per uno i momenti successivi: 

          

 

 Disegniamo prima il triangolo isiaco di sinistra della sezione mediana di Chefren e poi completiamola con quello di destra.

Tracciamo le perpendicolari nei due vertici di base del triangolo isoscele risultante.

Tracciamo le bisettrici dei due angoli di base del triangolo fino alle due perpendicolari e uniamo con un segmento rettilineo i due punti d’incontro con esse. Si dimostra, anche se qui non è opportuno farlo, che il rettangolo derivato ha l’altezza metà della base, ovvero è costituito da due quadrati.

Disegniamo una circonferenza con centro nell’incrocio delle diagonali e raggio la semialtezza del rettangolo. Anche qui è sottintesa la dimostrazione che la circonferenza risulta inscritta nel triangolo della sezione di Chefren, ossia che tutti e tre i lati sono tangenti a tale circonferenza.

Il procedimento seguito è ben noto nella sua parte finale relativa al rettangolo-biquadrato ed è quello che individua il segmento che sta tra ciascun vertice di base e la circonferenza come “sezione aurea” del lato di ciascun quadrato: esso vale per costruzione (√5-1)/2 = 0,618…, un numero che gode di diverse particolari proprietà.

Disegniamo le circonferenze che hanno centro nei due vertici di base e per raggio la “sezione aurea”, che così viene riportata sui due lati minori del rettangolo.

Sulle due perpendicolari laterali tagliamo due segmenti doppi della “sezione aurea” e uniamone gli estremi superiori con un segmento rettilineo. Il rettangolo risultante è in proporzione la sezione verticale dell’Arca: il rapporto tra lato minore e maggiore è 0,618…, quello di Esodo 25 è nella usuale approssimazione di 0,6 (come tra 3 e 5 nella successione detta di Fibonacci, che all’infinito vale quel rapporto).

 

Se ora guardiamo la rappresentazione dell’Arca fattane dallo scultore di Chartres, ne constatiamo la non casuale somiglianza con la figura nata dal procedimento geometrico.

Aggiungiamo solo questa notazione finale: i raggi delle ruote sono quelli di un ottagono regolare.

Fuori del presente discorso restano ancora due particolari del “quadrato” pompeiano, da chiarire in altra sede: la figura geometrica in alto e la misteriosa sigla in basso (v. Appendice).

 

Nota 1:  I Pitagorici avevano a simboli della setta il pentagono e il decagono. Oggi si è propensi a scherzare sulla “irrazionalità” della simbologia antica e medievale, ma non esiste ancora una qualsiasi spiegazione del perché l’elica del DNA, vista al microscopio in una sezione trasversale, dà forma a una struttura decagonale. (Nel decagono regolare il lato è sezione aurea del raggio della circonferenza circoscritta).

 

 

 Nota 2:  Nel sito Internet http://xoomer.alice.it/cid12 un particolare programma matematico e grafico mette in luce, sulla scorta del pensiero antico, la reale universalità strutturale della “sezione aurea” (indicata con la lettera greca φ) come fattore intrinseco a una Equazione Cosmologica:

 

 Napoli (Museo Nazionale), 10 Maggio 2003

                                                                                                  Renato Palmieri

                                                                                                   repalmi@tin.it

 

 

 Appendice a ”La risposta di SATOR"

La diffusione del messaggio. Il Cristianesimo, fattore aggiunto

 

Una variante del cubito greco-egizio usata per le misure delle stoffe di lino era composta di 5 palmi, ovvero di 20 dita. Le misure dell’Arca dell’Alleanza in Esodo 25 sono di un cubito e mezzo in larghezza e due cubiti e mezzo in lunghezza; l’altezza è pari alla larghezza. Tradotte in dita, risultano rispettivamente di 30 e 50 dita.

La sigla in basso alla scritta pompeiana non è in latino, come mostra chiaramente il primo dei segni, che non corrisponde a nessuna lettera dell’alfabeto latino, e meno che mai a una A, come si crede comunemente. Pur nella grafia incerta dovuta allo scrivere in una scanalatura della colonna, la scritta si mostra composta di tre lettere greche: ΛΝΟ (lambda, ni, omicron), che nel sistema numerale greco significano: 30, 50 e l’aggiunta di una omicron come iniziale dell’avverbio homòiōs, cioè “egualmente”, in riferimento all’altezza pari alla larghezza. La conferma si trova nel triangolo rettangolo che sovrasta il “quadrato”, i cui due cateti sono proporzionali alla misure di larghezza e lunghezza ora indicate e al “rapporto aureo” discusso nel testo, mentre il segmento tracciato da un vertice del triangolo verso l’esterno indica l’altezza dell’Arca in prospettiva, ma non in proporzione: richiede perciò la precisazione espressa dall’avverbio suddetto. La scelta geometrica del triangolo ne fa anche un indicatore della colonna centrale con la parola TENET. La sigla stessa in basso è conclusa da alcune linee incise, meno evidenti, che la qualificano nel suo significato metrico.

Si può quindi dedurre, per ipotesi, che l’anonimo fosse un ebreo di lingua greca, commerciante in tessuti e amico del ricco fornaio Paquio Proculo, duumviro a Pompei, nella cui casa si è trovato mutilo lo stesso “quadrato”. La cultura si associa chiaramente alla ricchezza nel famoso ritratto di Paquio Proculo e sua moglie: il volumen nelle mani di lui e i codicilli e lo stilus in quelle di lei.

 

Posto che i dati offerti nel testo, cui questa appendice si lega, sono assolutamente indiscutibili circa il contenuto ebraico del messaggio, è opportuno accennare, come un fattore aggiunto, la tesi del carattere anche cristiano del messaggio stesso. Una tesi che appare molto fondata, non tanto in relazione al possibile noto anagramma del Pater Noster, quanto alla evidente “crux dissimulata” del TENET e alla realtà del possente proselitismo cristiano, che aveva sicuramente già penetrato la società del tempo. La distruzione del Tempio di Gerusalemme e la conseguente diaspora ebraica sono alimento esplosivo di una complementare diffusione del credo cristiano,  che nel decennio 70-79 d. C., anche sull’onda della non spenta emozione suscitata dalla recente persecuzione neroniana, corre già per l’Impero tra le file degli eserciti e lungo le rotte mercantili. Il messaggio dell’anonimo ebreo, già forte abbastanza per essere accettato come distintivo in qualche casa pompeiana, sembra essere stato, per la cura semantica dei dettagli, il vero prototipo di un simbolo di appartenenza alla nuova religione. Dieci anni gli bastano per proiettarsi, anche dopo la distruzione di Pompei, sui secoli futuri fino ad oggi.

 

Restano da fare due osservazioni di carattere filologico. Il paradosso di un non-segreto, che è rimasto segreto per oltre diciannove secoli, si deve alla perdita di senso del latino di uso nel corso della storia. Un contemporaneo dell’anonimo pompeiano non avrebbe avuto dubbi nel leggere e capire AREPO come A, REPO, essendo a lui arcinoto – nell’uso vivo e non solo scolastico della lingua – il significato di “repo” come “io striscio” e di “a” esclamativo, pur senza la h (si veda anche in Orazio, Epodo V 71: “A, a, solutus ambulat…”). Ciò è tanto vero, che una notizia archivistica dovuta a una ricerca di Carlo Franciosi ci parla di un terzo quadrato rinvenuto nel ‘700 nella casa di Giulia Felice, che al quarto rigo presentava REPO, con l’omissione della A, considerata evidentemente superflua al significato della frase.

Non sembra poi giustificata, in riferimento all’interpretazione cristiana, la “pedanteria” di negare la datazione al primo secolo di A e O nel significato apocalittico di ALFA e OMEGA, dal momento che nulla può far escludere che tale senso potesse avere un suo corso preletterario e quindi precedente alla diffusa conoscenza dell’Apocalisse di Giovanni. Non può ritenersi certo casuale, in tale ottica, la disposizione – già nel quadrato originario – di quelle due vocali, che si ritrovano costantemente ai lati di ogni lettera T della stessa iscrizione.

Il carattere chiaramente biblico del messaggio viene accentuato dal giusto richiamo del Cumont a un passo di Ezechiele (I, 4-21), la cui visione presenta un altro “carro di Dio”, fornito di ruote sui quattro lati, così come il “quadrato” si contorna della parola ROTAS.

 

Uno strano destino ha voluto che il rapido propagarsi del messaggio abbia avuto per incentivo, in un primo arco di secoli, proprio la sua immediata comprensibilità tra gente adusa al latino parlato o anche solo scritto, e in una seconda serie che giunge fino ai nostri tempi, la suggestione magica conseguente alla perdita del senso lessicale per il sopraggiunto disuso del latino come lingua “corrente”. L’istintiva convinzione che si trattasse di cinque parole, e non di sei, ha quindi suggellato il mistero.

 

 

 

Il crittogramma di Bourges

 

 

 

Nel palazzo Lallemant di Bourges un'edicola del XVI secolo reca scritte su sei righe alterne le lettere misteriose RERE RER. L'esoterismo, come la scienza, se cade in mano ad "analfabeti" dell'uno o dell'altra - eretici o accademici che siano -, è inconcludente o pericoloso. La chiave filologica di questo crittogramma l'abbiamo scoperta anni fa (e comunicata a una cerchia "esoterica" di amici...) nel Vangelo di Giovanni, ai versetti 3-5 del capitolo III: quello di Nicodemo. Costui, un maestro fariseo della legge giudaica, in una visita notturna a Gesù, gli esterna la sua ammirazione per i segni divini presenti nella sua opera. Gesù gli risponde con un discorso di altissimo quanto recondito e polivalente significato, che si ritrova identico nella sostanza ma con differente veste simbolica nella versione greca e in quella latina. Esso è quindi tale da non potere essere tradotto immediatamente in una forma unica e onnicomprensiva: il che non è stato colto finora da nessuno, per quanto se ne sappia, fatta eccezione per l'autore dell'edicola (inutile parlare di Fulcanelli).

Una prima traduzione italiana del testo greco di quei versetti suona:

3 - Rispose Gesù e gli disse: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce di nuovo, non può vedere il regno di Dio". 4 - Dice a lui Nicodemo: "Come può un uomo nascere essendo vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel ventre di sua madre e nascere?" 5 - Rispose Gesù: "In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e spirito, non può entrare nel regno di Dio".

Tra il discorso di Gesù e la sua immediata ricezione nella mente di Nicodemo c'è un dislivello grandissimo, rappresentato nel testo greco dal senso ambivalente dell'avverbio ànothen, che può significare di nuovo - come lo intende Nicodemo - ma anche dall'alto. Gesù avverte l'incapacità di comprendere che è tipica della scienza umana e che in Nicodemo si caratterizza con l'univocità attribuita al termine che ha sentito. Più oltre, infatti, (vers. 10) Gesù ironizza su di essa, persistendo l'incomprensione di Nicodemo: "Tu sei maestro di Israele e non sai queste cose?" Egli significava insieme che nasce di nuovo solo chi nasce dall'alto, poiché (vers. 6) "ciò che è nato da carne, è carne, e ciò che è nato da spirito, è spirito", intendendo che da carne si nasce, ma la ri-nascita è dello spirito, che viene dall'alto, come ribadisce ai versetti 7 e 8: "Non meravigliarti, se ti ho detto: bisogna che voi nasciate ànothen. Lo spirito dove vuole spira, e tu ne senti la voce, ma non sai donde viene e dove va: così è ognuno che è nato dallo spirito".

La traduzione latina di un passo così complesso e denso doveva evidentemente affrontare la difficoltà di corrispondere alla pregnante ambiguità del testo greco, non disponendo di un termine bivalente come ànothen. La soluzione è risultata di straordinaria ingegnosità e bellezza simbolica, come ora vedremo.

 

Il vocabolo latino significante il "nascere di nuovo" era ovviamente il verbo renasci, col participio renatus. Peraltro bisognava trovare un modo di sottolineare che la sillaba "re-" comprendeva un senso più esteso del normale valore di replica ("di nuovo, una seconda volta"). L'effetto doveva essere di livello esoterico, pari cioè all'intendimento di Gesù, che parlava a chi aveva orecchie per udire, come altre volte si era espresso, con un linguaggio sovrastante la scienza profana ma incontrovertibile nel suo vero significato. Il traduttore latino opera, quindi, così:

 - Nei versetti 3 e 5 mette in forte risalto, nella proposizione che fa da protasi, il participio "renatus": "nisi quis renatus fuerit", cui segue nel vers. 3 l'avverbio "denuo" e, corrispondentemente, nel vers. 5 "ex aqua et spiritu". Ovvero, il "re-" di "re-natus" vale di nuovo solo per chi è nato da acqua e spirito, cioè dall'alto ("ànothen"). Tale dettato si contrappone al semplicistico rinascere carnale di Nicodemo del vers. 4.

 - In ciascuno dei tre versetti consecutivi la sillaba "re" costituisce il "lucchetto" che tiene unite le due parole finali: 3 - videre regnum; 4 - introire (et) renasci; 5 - introire (in) regnum.

 - Il prefisso "re-" di "renatus", così intensamente sottolineato, viene caricato di un sovrasenso spirituale, derivante da una tradizione iniziatica, che conferisce al vocabolo l'ambivalenza esoterica proposta dal testo greco.

Risulta già da ora evidente che l'artista del palazzo Lallemant ha colto la struttura filologica del passo evangelico e il suo riposto significato, esprimendone il nesso sillabico con RERE e il legame fonetico-allitterante - come lo scatto del "lucchetto" - con RER: il tutto ripetuto tre volte in relazione ai tre versetti successivi.

 

Ma veniamo all'osservazione conclusiva sull'enigmatico valore di questo passo evangelico. Nel testo latino il participio "renatus" dei versetti 3 e 5, col particolare rilievo anche ritmico conferitogli nella traduzione sacra, offre la chiave di una particolare interpretazione iniziatica del valore di quel "re", che stringe con un simbolico legame le parole finali dei versetti 3, 4, 5. Ricordiamo che "Ra", "Re" sono trascrizioni fonetiche occidentali del nome del dio-Sole egizio, che compare nei nomi di faraoni, come Khaf-ra (o Khaf-re), detto Cheph-re-n dai Greci, e Dedef-ra (o Re-dedef), figli di Cheope: i faraoni, infatti, erano destinati a rinascere proprio perché nati da Ra, nati dal ka divino, cioè dallo Spirito, e le Piramidi erano il tempio del rito iniziatico della loro rinascita (il discendere e il risalire del ka divino contrassegnava la successione del nuovo faraone al morto, come è mostrato nella Grande Piramide dai cosiddetti "canali psichici", i condotti che immettono nelle due grandi camere rituali). In particolare, Chephren è trascrizione greca dell'egiziano antico Hawef-rie, che significa "il suo apparire è Rie" (cioè Ra, Re): in altri termini, il "re-natus" latino ne è la precisa traduzione esoterica nel contesto delle dottrine iniziatiche nelle quali si veniva formulando il Vangelo di Giovanni. Il vocabolo assume così, nelle parole di Gesù, un duplice significato, esattamente come ànothen nel testo greco: il primo e immediato è quello che provoca la meraviglia incredula di Nicodemo, ossia "nato una seconda volta"; l'altro, recondito, è "Re (Rie, Ra) natus", nato come Rie, dallo Spirito di Dio, quindi dall'alto, condizione indispensabile per "nascere una seconda volta" e vedere il regno di Dio.

 

Napoli, 19 agosto 2004